#12: “Sento che tu…”
Quante volte abbiamo pronunciato questa frase o ce la siamo sentita dire?
In realtà si tratta di un puro errore cognitivo, ed ora proverò a spiegarne il motivo!
Le scienze cognitive (la filosofia yogica, stoica, e simili) sostengono ormai da millenni che il sentire nasce dal pensiero e il pensiero non è altro che un’attribuzione soggettiva di contenuti.
In pratica, ogni situazione che viviamo viene percepita dai sensi e tale percezione sensoria viene poi elaborata a livello di pensiero: ad esempio, una mia amica mi racconta un fatto che ascolto attraverso l’udito e, subito dopo, interpreto ciò che ho ascoltato in modo soggettivo in base ai contenuti cognitivi della mia mente.
Questa interpretazione, inevitabilmente, produrrà un’emozione, piacevole o sgradevole che sia; l’emozione produrrà un “sentire” e il sentire produrrà un’azione; l’azione agita andrà poi a rafforzare l’interpretazione iniziale che l’ha prodotta.
Questo processo ha molte conseguenze importanti nella vita di tutti i giorni, di cui, nella gran parte dei casi, non ci rendiamo neanche conto.
Succede infatti che tali contenuti - ossia, le interpretazioni reiterate nel tempo che producono altre interpretazioni in modo logicamente consequenziale - siano talmente radicati in noi da non essere visti o da essere considerati scontati e inamovibili.
E per confermare qualcosa che ci appartiene così profondamente - come i nostri pensieri appunto, con i quali normalmente ci identifichiamo - andiamo a modificare inconsapevolmente la realtà.
Ad esempio, se penso che una determinata persona sia scorretta, automaticamente non solo interpreterò ogni suo gesto o detto attribuendole sempre il contenuto della scorrettezza, ma farò in modo - per lo più inconsapevolmente - che accada qualcosa che possa darmi l’opportunità di dire ancora una volta che quella persona è scorretta.
Questo meccanismo è ciò che Yogi Bhajan chiama “agenda nascosta”: uno scopo ignoto a noi stessi, ma che perseguiamo costantemente.
Un altro effetto, non meno importante di quello esposto sopra, è che spesso attribuiamo il nostro sentire all’altro, senza renderci conto che tutto ciò che possiamo osservare e di cui possiamo parlare siamo solo noi stessi.
Mi spiego meglio.
Supponiamo che accada questo fatto:
Claudio dice a Valerio: “Vorrei partecipare a questo evento di gruppo ma, essendo al chiuso, preferirei si tenessero le finestre aperte così, attraverso il ricambio dell’aria, abbassiamo le probabilità di contagiarci nel caso qualcuno covasse inconsapevolmente un virus”.
L’esigenza esposta da Claudio, una volta comunicata, assume un significato che viene attribuito da Valerio.
Supponiamo che Valerio interpretasse tale esigenza, dentro di sé, in questo modo: “Se Claudio mi sta dicendo questo, evidentemente si trova in uno stato di paura e non vorrei che portasse questa emozione all’interno del gruppo”.
Quella di Valerio è un’interpretazione del tutto soggettiva, e vi spiego perché. Anna, ascoltando la stessa affermazione di Claudio, potrebbe pensare tra sé: “Da quello che dice Claudio, mi sembra che lui si sentirebbe tranquillo se ci fossero le finestre aperte, quindi visto che con le finestre aperte Claudio si sentirà tranquillo, l’evento procederà in modo armonioso”
Si tratta di due attribuzioni di significato ad una stessa frase che sono opposte e del tutto soggettive.
Queste due interpretazioni, in realtà, non parlano di Claudio, ma parlano dei loro rispettivi autori, ossia Valerio e Anna. Possiamo spingerci a dire che sono i modi in cui Valerio e Anna si sentirebbero se si trovassero al posto di Claudio.
Per cui il dire “sento che tu hai paura” - piuttosto che dire “sento che tu sei tranquillo” - rispetto a Claudio, costituisce una semplice ipotesi che dovrebbe essere verificate insieme a Claudio, il detentore del contenuto originale.
Inoltre, poiché anche andando a chiedere a Claudio notizie circa il suo vero sentire, egli non potrebbe far altro che dirci solo ciò di cui egli è consapevole rispetto a sé, capiamo bene come il pensare di poter dire qualcosa di assolutamente vero su qualsiasi evento esterno osservato sia un’ipotesi alquanto azzardata!
Questo piccolo esempio mostra come nella vita di tutti i giorni attribuiamo costantemente significati agli eventi che viviamo in modo del tutto soggettivo scambiandoli, però, per qualcosa di oggettivo.
Le conseguenze di questa confusione cognitiva sono già di per se stesse gravi, poiché non ci relazioniamo mai alla realtà andando ad indagare direttamente la realtà stessa (ad esempio, interrogando un pò più a fondo Claudio sul suo sentire), ma attribuendo un contenuto di verità ad ogni nostra interpretazione.
Quello che accade in questo caso è che, invece di essere in contatto con la realtà (per quanto ci è dato esserlo!), siamo di fatto in contatto solo con la nostra mente e con le interpretazioni che essa produce in ogni istante.
Ma, poiché i pensieri diventano prima emozioni e poi azioni, le due diverse interpretazioni di Valerio e di Anna produrranno nei loro autori un sentire diverso - gradevole o sgradevole - di cui gli autori riterranno Claudio responsabile, mentre in realtà questo sentire è stato prodotto dalle loro proprie interpretazioni.
In seguito, il diverso sentire produrrà un diverso agire, per cui Valerio, in base al suo sentire, potrebbe escludere Claudio dal gruppo, mentre Anna potrebbe integrarlo.
Ricordarsi che la mente raccoglie costantemente informazioni dall’ambiente esterno che poi elabora a modo proprio, ci consentirebbe di osservare i giudizi che diamo sulla realtà, ossia le nostre “attribuzioni di significato”; questa osservazione ci potrebbe dare la possibilità di dire ogni volta a noi stessi: “Questa è solo la mia interpretazione; andiamo a verificare meglio!”.
Questo sospendere il giudizio, analizzare nel dettaglio e, solo dopo, decidere come agire è la prassi cognitivo-comportamentale suggerita dagli stoici ormai più di due millenni fa e che ancora oggi pare non riusciamo ad applicare al meglio.
Buona pratica a tutti!